venerdì 18 febbraio 2011

Yeshua e la Torah − La predicazione di Yeshua


Ha Yeshua veramente, come affermano i cristiani, “affrancato” i suoi discepoli dalla Legge? In quale modo? Sopprimendo i comandamenti? Sembra proprio di no, anzi, nella sua predicazione più conosciuta, il Sermone del Monte, il suo atteggiamento nei confronti della Torah è piuttosto quello dei Giudei detti ortodossi, o più rigido ancora. Dopo le beatitudini, il suo discorso sulla Legge inizia con la seguente dichiarazione:
«Non pensate che io sia venuto per sciogliere la Torah o i Profeti; io sono venuto non per sciogliere ma per portare a compimento. Poiché in verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, neppure un yod o un apice della Torah passerà senza che tutto sia adempiuto. Chi dunque avrà violato uno di questi minimi comandamenti e avrà così insegnato agli uomini, sarà chiamato minimo nel Regno dei cieli; ma chi li avrà messi in pratica e insegnati sarà chiamato grande nel Regno dei cieli. Poiché io vi dico che se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, non entrerete affatto nel Regno dei cieli». (Matteo 5:17-20)
Abbiamo già commentato queste parole nel capitolo precedente . Questa è stata l’introduzione del suo discorso sulla Torah, ch’egli presenta toccando diversi punti i quali inizia con le parole “avete udito che fu detto” e poi esprime la sua posizione dicendo “ma io vi dico”. Rappresenta questo “ma” un contrasto oppure una riaffermazione? Infatti, è un insegnamento comune nel cristianesimo sostenere che Yeshua nel Sermone del Monte abbia proclamato delle antitesi. Indubbiamente, un’antitesi è un’“anti-tesi”, cioè, enunciare il contrario di quello che è stato proposto prima come tesi. Nella filosofia cristiana, questa anti-tesi è senz’altro anti-Torah (ovvero, anti-Legge). Quindi, perché quest’assioma del cristianesimo sia vero, dobbiamo pensare che Yeshua abbia detto come segue:
"Voi avete udito che fu detto agli antichi: ’non assassinare’, ma io vi dico: ’ora potete uccidere chiunque vi sta antipatico!’"; oppure:
"Voi avete udito che fu detto: ’non commettere adulterio’"; e poi, questo Rabbino di Natzaret, nelle vesti di
Jesus Christ Super Star, dice: "ma io vi dico: ’Buone notizie, ragazzi! ora c’è la libertà sessuale! fate l’amore, non la guerra!’"... E’ proprio così? Queste illustrazioni appena presentate, sono delle antitesi. Invece, ciò che Yeshua ha esposto nella sua predicazione, non sono affatto antitesi, ma piuttosto super-tesi, una confermazione di ciò che era già stato stabilito, addirittura con un’ulteriore rigidità. Vediamo:
«Voi avete udito che fu detto agli antichi: “non assassinare” e “chiunque avrà ucciso sarà sottoposto al tribunale”; ma io vi dico: chiunque s’adira senza causa contro il suo fratello sarà sottoposto al tribunale, e chi avrà detto a suo fratello “buono a nulla” sarà sottoposto al Sinedrio; e chi gli avrà detto “pazzo” può essere condannato alla Gehenna... Io ti dico in verità che di là non uscirai, finché tu non abbia pagato fino all’ultimo centesimo». (Matteo 5:21,22,26)
Evidentemente, Yeshua non ha minimamente alleggerito la condanna dell’assassino, anzi, ha parificato dei reati apparentemente molto minori dell’omicidio alla gravità di questo, considerandoli meritevoli della stessa punizione. Non ha “affrancato” nessuno dalla Legge, ma ha piuttosto esteso la sua applicazione ad altre circostanze non contemplate da essa.
«Voi avete udito che fu detto: “non commettere adulterio”; ma io vi dico che chiunque guarda una donna sposata con libidine, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore». (Matteo 5:27,28)
Ha forse Yeshua minimizzato la Legge sull’adulterio? Certamente no, anzi, l’ha ancora inasprita, applicando la condanna riservata agli adulteri di fatto anche a coloro che lo sono solo virtualmente! Nei versi successivi ha ribadito che è un peccato assolutamente da evitare, al punto di rappresentarlo con l’allegoria di tagliarsi i membri che porterebbero a compierlo piuttosto che subire la punizione eterna.
L’episodio della donna adultera alla quale egli non condannò non contrasta con questa sua posizione: un giudice ha anche la potestà d’assolvere il colpevole, ma questo non autorizza a quest’ultimo a continuare a delinquere. Infatti, ogni volta che Yeshua ha perdonato qualcuno, gli ha puntualmente ordinato  “va’, e non peccare più”.
Nota: il verso sopra è riportato correttamente, perché il termine tradotto semplicemente “donna”, nel testo originale (sia aramaico o greco) indica una donna sposata, quindi è più corretto tradurlo in modo inequivocabile − a parte il fatto che l’adulterio si può commettere soltanto con chi è moglie del prossimo.
«Fu detto: chiunque ripudia sua moglie, le dia l’atto del divorzio”; ma io vi dico: chiunque manda via sua moglie, salvo che essa abbia commesso atti d’immoralità sessuale, la fa essere adultera; e chiunque sposa colei ch’è stata divorziata commette adulterio». (Matteo 5:31,32)
Alla faccia dell’affrancamento dalla Legge! Se prima una coppia poteva divorziare e risposarsi entrambi, secondo Yeshua la povera donna non potrà più risposarsi, altrimenti sarà sempre un’adultera, anche se lei è stata mandata via senza colpa! Infatti, la lettera di divorzio serviva proprio come garanzia per la donna che, essendo stata sposata, se poi era còlta insieme ad un altro uomo poteva essere accusata d’adulterio e condannata, ma se ella poteva esibire l’atto di divorzio, allora era per entrambi lecito sposarsi. In questo particolare, Yeshua è molto più rigido di Mosheh, come si legge in Marco 10:2-12 e nel seguente passo parallelo:
Essi gli domandarono: «perché dunque comandò Mosheh di darle un atto di divorzio e mandarla via?» Yeshua rispose loro: «Mosheh, per la durezza dei vostri cuori vi permise di mandar via le vostre mogli, ma in principio non era così. Ed io vi dico che chiunque manda via sua moglie quando non sia per causa d’immoralità sessuale, e ne sposa un’altra, commette adulterio, e chi sposa la donna divorziata commette adulterio anch’egli». I suoi discepoli gli dissero: «se tale è il caso dell’uomo rispetto alla donna, non conviene prendere moglie». (Matteo 19:7-10)
Come risulta evidente dalla reazione dei discepoli, la Legge era molto più morbida della “grazia”... In questo i cristiani sono generalmente più legalisti e rigidi; il mistero consiste nel fatto che, mentre la maggioranza d’essi si oppone al divorzio, credono di fatto in un Elohim “divorziato”, che ha lasciato la Sua prima moglie, Israele, per sposare un’altra più giovane, la chiesa... Invece i Giudei, che accettano il divorzio secondo le regole mosaiche, hanno un Elohim fedele al Suo primo amore... Un vero paradosso!
«Mosheh non vi ha dato egli la Torah? Eppure, nessuno di voi mette ad effetto la Torah! Perché cercate d’uccidermi?» (Yohanan 7:19)
Ha Yeshua reclamato l’osservanza della Torah, oppure la sua inosservanza? Nelle sue discussioni con i farisei, Yeshua recriminava loro ciò che oggi egli reclamerebbe alla maggioranza dei cristiani: l’aver invalidato i comandamenti della Torah per sostituirli con le loro tradizioni. O forse le istituzioni umane stabilite nel seno della chiesa in due millenni di storia del cristianesimo non pesano di più delle Scritture? Quanti dei regolamenti e pratiche delle chiese sono veramente biblici? Infatti, analizzando puntualmente tutti gli incontri in cui egli si confronta con i farisei, in nessun caso mette in discussione la loro osservanza della Torah, ma bensì il loro zelo per le tradizioni, alle quali essi avevano conferito di fatto un’importanza superiore alla Legge Mosaica. Prendiamo come esempio il seguente episodio:
Poiché i farisei ed i Giudei non non mangiano se non si sono lavati le mani e gli avambracci, seguendo la tradizione degli antichi; e quando tornano dal mercato non mangiano se non si sono purificati con dei bagni; e vi sono molte altre cose che osservano per tradizione: lavature di calici, d’anfore e di brocche di rame. Ed i farisei e gli scribi gli domandarono: «Perché i tuoi discepoli non seguono essi la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con le mani impure?» Ma Yeshua disse loro: «Ben profetizzò Yeshayahu di voi ipocriti, com’è scritto: Questo popolo Mi onora con le labbra, ma il cuore loro è lontano da Me. Invano Mi rendono il loro culto, insegnando dottrine che sono precetti d’uomini. Voi, lasciato il comandamento d’Elohim, vi siete attaccati alla tradizione degli uomini». E diceva loro ancora: «Come ben sapete annullare il comandamento d’Elohim per osservare la vostra tradizione!». (Marco 7:3-9)
Oggi sarebbe possibile parafrasare questo brano ed adeguarlo alla situazione presente, cambiando soltanto gli interlocutori di Yeshua ed il tipo di costumi imposti dalla tradizione, ma la sostanza rimarrebbe la stessa. Non c’è bisogno d’elencare le innumerevoli pratiche cattolico-romane o greco-ortodosse che hanno obliterato completamente gli ordinamenti biblici, ma anche tra i protestanti e gli evangelici esistono molte diversificate tradizioni che non trovano alcun riscontro nelle Scritture, e pure sono osservate meticolosamente. Tutte queste pratiche sono “giustificate” da una dogmatica scusa: “non siamo più sotto la Legge”; tuttavia, inconsapevolmente o meno, si sono sottomessi a delle leggi, altrimenti vivrebbero nell’anarchia, cosa che non sembra essere il caso della maggioranza delle chiese. Il fatto cruciale è il non voler ammettere che in realtà hanno sostituito una Legge con un’altra legge, la quale, secondo il loro parere, si chiamerebbe “grazia”!
Non è semplice esemplificare in modo generale in cosa consistono le tradizioni delle diverse chiese cristiane, perché variano da una comunità all’altra; tuttavia, la stragrande maggioranza d’esse hanno come denominatore comune la scusa sopra citata, che nasce dal concetto che le Scritture Ebraiche siano “Antico Testamento”, non più in vigore e sostituito dal Nuovo, che non c’è più alcun vincolo nei riguardi della Torah, che chi osserva i comandamenti è un giudaizzante, ecc.
Queste tradizioni ecclesiastiche non sempre si riferiscono a costumi o pratiche, ma riguardano anche dottrine, dogmi, interpretazioni teologiche. Nell’ambiente evangelico, per esempio, l’eresia più diffusa è il dispensazionalismo. Le chiese che sostengono questa falsa dottrina sono la maggioranza, e se qualcuno osa mettere in discussione le posizioni prese in quanto alla soteriologia ed escatologia, ciò gli comporta l’allontanamento o la segregazione. Spesso succede anche che le divergenze inconciliabili tra una congregazione e l’altra (non stupirsi se per questi motivi si scomunicano a vicenda) siano relative a cose d’importanza minore come parlare o non parlare in lingue, o addirittura banali come portare il velo o non portarlo, tagliarsi i capelli secondo dei parametri stabiliti (da chi?), portare o non portare tale o quale indumento, ballare o andare allo stadio, ecc., dettagli per i quali Yeshua non perse tempo a parlarne e dei quali non si occupò minimamente.
Un altro requisito indispensabile per essere un buon cristiano è la fedeltà allo Stato! Sì, piuttosto che ai comandamenti d’Elohim, perché (dicono), la sottomissione allo Stato è ordinata da Elohim. Bisogna essere buoni cittadini, non importa se poi s’infrangono i comandamenti, si profana lo Shabat, si giudica il prossimo, basta che si paghino puntualmente le tasse. Apparentemente, Yeshua stesso ha stabilito ciò. Vediamo: 
Allora i farisei, ritiratisi, tennero consiglio per veder di coglierlo in fallo nelle sue parole. E gli mandarono i loro discepoli insieme agli erodiani a dirgli: «Rabbi, noi sappiamo che sei onesto ed insegni la via d’Elohim secondo verità, senza riguardo d’alcuno perché sei imparziale. Dicci dunque, che te ne pare? E’ lecito pagare il tributo al Cesare, o no?» Ma Yeshua, conoscendo la loro malizia, disse: «Perché mi tentate, ipocriti? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli portarono un denaro. Ed egli domandò loro: «Di chi è quest’immagine e quest’iscrizione?» Gli risposero: «Di Cesare». Allora egli disse loro: «Restituite dunque a Cesare quel ch’è di Cesare, e date ad Elohim quel ch’è d’Elohim». Ed essi, udito ciò, si meravigliarono, e lasciatolo, se ne andarono. (Matteo 22:15-22)
Questo è il brano classico utilizzato dai legalisti cristiani per stabilire in modo tassativo ed indiscutibile il loro dogma del dovere civico del pagamento delle tasse, il quale è stato elevato alla categoria di dottrina e metterlo in discussione è una questione non più sociale ma teologica. Benché potrei farlo con parole mie, ancora una volta vorrei citare Pinhas Lapide perché spiega la situazione in modo ineccepibile:
 
Siamo nel cuore della Yerushalaym giudaica e nel cortile del Tempio. Da una parte i fieri sadducei, i quali vogliono compromettere il riottoso predicatore itinerante di Natzaret. Dall’altra il Nazareno, il quale vede nei sadducei dei veri e propri collaboratori dei tiranni pagani Romani. Ora, in questa contrapposizione intra-giudaica, si abbatte come una mazzata una domanda tranello: «Rabbi, è lecito o no pagare il tributo al Cesare?» Notare la formulazione provocatoria! Era infatti un inderogabile dovere civico pagare il tributo a Cesare. La temuta imposta riguardava tutti gli Ebrei e proprio su di essa si basava lo sfruttamento economico del Paese. E’ di questa riscossione delle tasse che si tratta nella domanda-tranello che viene posta a Yeshua nel cortile del Tempio, in un’atmosfera estremamente tesa, che esprime formalmente un desiderio di liberazione e libertà e quasi un invito alla sollevazione. Ora Yeshua poteva accettare o avallare una sacrilega sottomissione al potere romano? Sacrilega, poiché Ponzio Pilato aveva esteso il suo disprezzo per la fede ebraica al punto di far coniare delle monete provocatorie, le quali con la loro effigie dell’imperatore violavano apertamente il secondo comandamento. La domanda posta a Yeshua sembra non ammettere alcuna via d’uscita. Se Yeshua risponde «Sì, è lecito pagare il tributo a Cesare» si dichiara agli occhi dei suoi discepoli e simpatizzanti come un vile collaboratore. Se afferma «No, non è lecito pagare il tributo a Cesare» viene considerato un ribelle dai Romani, còlto in flagrante violazione della legge ed è quindi giuridicamente e politicamente spacciato. Ma Yeshua chiede al suo interlocutore di mostrargli una moneta, dando chiaramente a vedere a tutti che egli non possiede alcuna moneta pagana recante l’odiate effigie. E mostrando la moneta, il denaro di Tiberio, chiede: «Di chi è quest’immagine e l’iscrizione (cioè il titolo di proprietà)?». «Di Cesare» è la risposta generale. Allora risponde in modo chiaro ed inequivocabile: «Restituite [rendete] quindi a Cesare ciò che è di Cesare e ad Elohim ciò che è d’Elohim». Qui abbiamo uno degli errori di traduzione più gravi e ricchi di conseguenze negative di tutto l’Evangelo. Yeshua non dice «date», ma «date indietro, restituite» (in greco apodote), consigliando in definitiva una rottura non violenta nei riguardi dell’ordinamento politico esistente. In altri termini, poiché secondo il diritto romano relativo alle monete, tutte quelle in circolazione che portavano l’effigie dell’imperatore gli appartenevano come sua proprietà privata, la risposta di Yeshua era a prima vista giusta e corretta. Ma non così per i Giudei presenti. Essi compresero chiaramente ciò che Yeshua diceva: «Restituite all’imperatore il suo peccaminoso denaro e non usatelo, come io stesso vi ho dimostrato, affinché possiate dare ad Elohim ciò che è d’Elohim, cioè il riconoscimento della Sua esclusiva sovranità sull’intera Creazione, senza dominazione pagana e culto idolatrico». I Giudei, che allora erano oppressi, compresero benissimo − senza il successivo errore di traduzione − il messaggio di Yeshua: un deciso rifiuto opposto agli occupanti ed ai loro collaboratori. Le parole che Yeshua pronunciò quel giorno a Yerushalaym per i Romani erano inoppugnabili, ma per i Giudei erano un chiaro invito alla rivolta. Purtroppo per i lettori italiani della Bibbia esse continuano ad essere tradotte in un modo che ne travisa il senso”.
A questa spiegazione di Pinhas Lapide c’è poco da aggiungere. Solo che per precisione, le monete giudaiche non avevano alcuna immagine, e quindi potevano essere usate per comprare e vendere ciò che serve alla vita di tutti. Infatti, Yeshua non è a caso che chiede specificamente sull’immagine e l’iscrizione, ma con una ragione, e fonda la sua risposta su questo particolare − tacitamente, chiede al suo auditorio: l’immagine di Chi siete voi? Date quindi a Colui del quale siete immagine ciò che Gli appartiene, voi stessi, e lasciate perdere ciò che è dello Stato (in questo caso dell’imperatore). Il “culto dello Stato” promosso dai cristiani, quindi, non trova alcuna giustificazione in questo brano, anzi, è piuttosto confutato.
Ciononostante, qualcuno dirà che Yeshua pagava le tasse, basandosi in Matteo 17:24-27; allora prendiamo in considerazione anche quel brano:
E quando furono venuti a Kefar-Nahum, quelli che riscuotevano le didramme s’avvicinarono a Kefa e dissero: «Il vostro Rabbi non paga egli la didramma?» Egli rispose: «Sì». Perché quando erano entrati in casa, Yeshua lo prevenne e gli disse: «Che te ne pare, Shim’on? i re della terra da chi prendono le tasse o il dazio? dai loro figli o dagli stranieri?» E Kefa rispose: «Dagli stranieri». Yeshua gli disse: «I figli, dunque, sono esenti. Ma, per non scandalizzarli, vattene al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che verrà su; e apertagli la bocca, troverai uno statère. Prendilo, e dàllo loro per me e per te».
A parte il fatto che risulta chiaro che il pagamento di questa tassa non è un obbligo, ma volontario “per non scandalizzare”, qui si tratta non delle imposte dei Romani − i quali non chiedevano certamente se qualcuno aveva o meno la volontà o la voglia di pagare come invece hanno fatto questi che riscuotevano le didramme − ma della tassa per il mantenimento del culto, uno dei regolamenti farisaici.  Infatti, la didramma era una moneta utilizzata a tale scopo e circolava localmente, non aveva alcun valore per le tasse imperiali.
L’evidenza che Yeshua alla fine viene considerato un sedizioso dai Romani si palesa nel modo in cui è stata determinata la sua esecuzione: la crocifissione infatti, secondo la Lex Julia Majestatis, ovvero la legge romana, era applicabile soltanto per due categorie di criminali: gli schiavi fuggiaschi ed i ribelli antiimperialisti. Praticamente tutti coloro che sono stati crocifissi durante la dominazione romana in Giudea erano rivoluzionari zeloti − come lo erano anche i “ladroni” condannati insieme a Yeshua. Infatti, con questo termine denigratorio si indicava i combattenti indipendentisti, siano essi zeloti, sicarii o altri guerriglieri. Così lo storico Strabone applica questo termine agli Hasmonei, e Giuseppe Flavio nella “Guerra Giudaica” spiega che i Romani  chiamavano così i rivoluzionari. I semplici ladroni, nel vero senso della parola, erano giustiziati senza alcuna cerimonia − crocifiggere qualcuno comportava delle complicazioni, ed era fatto allo scopo d’intimidire il popolo, esponendo pubblicamente gli indipendentisti. Nessuno si prendeva la briga di farlo per un semplice delinquente comune che non minacciava l’onore dell’impero. Il silenzio degli Evangeli sullo scenario politico dell’epoca e la reticenza nel nominare gli zeloti (così come il misterioso silenzio sugli esseni, già spiegato) deriva dal fatto che il testo greco fu ultimato in pieno periodo di persecuzioni neroniane contro i cristiani, per cui al meno i loro testi sacri dovevano evitare qualsiasi riferimento che potesse irritare le autorità romane e dare loro un’ulteriore scusa per infierire contro la nascente assemblea di fedeli nazareni (come si chiamavano originalmente i cristiani). Dopo gli atroci supplizi a cui sono stati sottoposti i seguaci del Cristo, i traduttori dovevano far sì che il testo greco non lasciasse intravedere che il loro Messia ed i suoi apostoli avessero coltivato neanche la più pallida avversione nei confronti dell’impero, così che la stesura finale non avesse niente a che fare con la politica di liberazione giudaica. Invece, nella società ebraica dell’epoca di Yeshua c’era una tripartizione trasversale, al di fuori dei partiti e correnti di pensiero teologico, basata sulle condizioni di vita: la massa popolare, che mirava alla sopravvivenza, i traditori che per migliorare la loro posizione passavano dalla parte dei collaborazionisti dei potenti, ed i “giusti”, nome che si dava ai Giudei che osservavano la Torah in modo ineccepibile, che non scendevano a compromessi nemmeno per una yod o un apice. Uno di questi punti fondamentali dell’osservanza della Torah che facevano di un Giudeo un giusto, riguardava proprio l’autorità: “Quando sarai entrato nel Paese che Adonay il tuo Elohim sta per darti, dovrai costituire sopra di te come re colui che Adonay il tuo Elohim avrà scelto. Costituirai come re sopra di te uno dei tuoi fratelli; non potrai costituire su di te uno straniero che non sia tuo fratello” (Deuteronomio 17:14,15). Questa era una proibizione tassativa, così che nessun Giudeo fedele avrebbe mai accettato la dominazione dei pagani. In quale schiera sociale poteva trovarsi Yeshua? Non c’era molta scelta. Infatti, l’immagine “pacifista” (o meglio, “menefreghista” in quanto alla politica) di Yeshua presentata dai cristiani non coincide con il suo consiglio ai discepoli: «Chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una» (Luca 22:36). Non ha finito la frase che essi ne hanno già estratto due (o 24?, 2x12...). Nelle versioni italiane della Bibbia, la risposta di Yeshua al loro atto d’estrarre le spade è mal riportata: “basta” (Luca 22:38); è molto più fedele all’originale la versione inglese, che dice: “that is enough”, ossia “bastano”, oppure “sono sufficienti”. Il dato di fatto è che , una, due o quelle che siano state, costituivano una grave infrazione contro la legge romana, che vietava tassativamente a tutti gli Ebrei di portare spade. E non solo le portavano, ma le hanno pure usate, come attesta Luca 22:50. Ricorrerò ancora una volta al testo di Pinhas Lapide per concludere la descrizione dell’estrazione socio-politica alla quale appartenevano la maggioranza degli apostoli (forse tutti eccetto Matteo, l’esattore):
 “Tuttavia, nella sistematica spoliticizzazione della redazione greca finale affiorano qua e là frammenti della verità storica. Fra i Dodici, Shim’on viene coraggiosamente chiamato due volte ’lo Zelota’ (Luca 6:15; Atti 1:13); il significato di gran lunga più evidente del soprannome ’Iscariota’ dato a Giuda è
sicarius, cioè ’uomo del pugnale’. Anche ’bar-Yona’, il soprannome dato da Yeshua a Kefa (Matteo 16:17) subisce nell’espressione ’figlio di Yona’ una evidente storpiatura, poiché in aramaico significa ’esiliato’, ’bandito’, in breve: un ribelle perseguitato dagli sbirri Romani. Che sotto il nomignolo ’figli del tuono’ dato ai figli di Zavdai (Marco 3:17) si nascondesse la loro inclinazione alle azioni violente lo dimostra la loro unica entrata in scena, quando propongono a Yeshua di punire gli inospitali samaritani con il pugno di ferro (Luca 9:54). Che gli apostoli facessero parte degli attivisti militanti del tempo non dovrebbe sorprendere nessuno che abbia un po’ di fiuto storico. Chi ha vissuto come Ebreo in una terra occupata dal nemico non fa alcuna fatica ad immedesimarsi nelle condizioni politiche della patria di Yeshua al tempo della sua vita”. (“Bibbia tradotta, Bibbia tradita”, parte terza, 1, 39).
Sul concetto che si aveva dei Romani all’epoca ne faremo accenno più avanti; ritorniamo adesso agli insegnamenti di Yeshua.
Vediamo un altro passo che i cristiani amano citare per fare a meno della Torah come qualcosa di vecchio ed inutile:
«Nessuno mette vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo rompe gli otri, il vino si disperde, e gli otri vanno distrutti. Ma il vino nuovo va messo in otri nuovi, e l’uno e gli altri si conservano. E nessuno che abbia bevuto il vino vecchio ne desidera del nuovo, perché dice: “il vecchio è migliore!”». (Luca 5:37-39)
E’ interessante il fatto che i predicatori cristiani quando parlano di questo episodio normalmente non usano il testo di Luca, ma quello parallelo di Matteo 9:17 oppure Marco 2:22 − perché? Perché in questi due Evangeli, l’ultima frase non compare. L’altro particolare è l’interpretazione che essi danno a questo brano -puntualmente tòlto dal contesto-. Seguendo le orme dei famigerati “padri della chiesa”, noti fanatici dell’antigiudaismo, mettono nella bocca di Yeshua qualcosa di blasfemo ch’egli non ha mai inteso dire, ovvero, che il  “vino nuovo” è il suo nuovo, rivoluzionario messaggio, che è incompatibile con il vecchio e vetusto Giudaismo e la sua Torah, rappresentati dagli otri vecchi, i quali non possono comprendere l’Evangelo. Si tratta appunto di un’esegesi assolutamente errata e fuori dal contesto. Innanzitutto, Yeshua non ha mai detto che il suo messaggio fosse nuovo, e tanto meno in contrapposizione alla Torah, di cui ribadisce l’assoluta ed eterna validità, e reclama l’osservanza persino dell’ultima yod. Si prega ai signori esegeti e predicatori, di rivedere l’intero contesto, e di leggere anche il brano parallelo di Luca. Grazie. In primo luogo, questa metafora riguarda il digiuno (un’altra cosa che la stragrande maggioranza dei cristiani non hanno capito, e pensano che sia una specie di sciopero della fame” per costringere Elohim a concederli qualche petizione); secondo, se quest’allegoria rappresentassi veramente il “vecchio Giudaismo” versus il “nuovo cristianesimo”, gli stessi sostenitori di questa teoria si danno la zappa sui piedi, perchè, effettivamente come riporta Luca, “il vino vecchio è migliore”!
Per concludere con questa parte, intitolata “La predicazione di Yeshua”, e riprendendo anche il soggetto principale di questo studio, ovvero, la Casa di Israele e la Casa di Yehudah, presenterò uno dei miracoli operati da Yeshua:
Ed avvenne che, sulla sua strada verso Yerushalaym, egli passava sui confini della Samaria e della Galilea. E come entrava in un certo villaggio, gli vennero incontro dieci uomini lebbrosi, i quali, fermatisi da lontano, alzarono la voce dicendo: «Yeshua, Rabbi, abbi pietà di noi!» E vedutili, egli disse loro: «Andate a mostrarvi ai Kohanim». E avvenne che, mentre andavano, furono mondati. (Luca 17: 11-14)
Questo è uno dei miracoli operati da Yeshua, il quale, come tutti gli altri, fu compiuto fuori della Giudea − perchè, come è già stato spiegato, nessun Profeta ha mai fatto miracoli in Yehudah, dal momento che lo scopo principale dei miracoli è il riscatto di cui i Giudei, avendo la Torah, non hanno bisogno. Vediamo infatti, che questi lebbrosi non erano Giudei, ma dei popoli risultanti dalla mistura fra i discendenti delle dieci Tribù e popoli gentili, e nella loro condizione erano letteralmente recisi dal popolo, come la Casa di Israele fu recisa dall’ulivo ed esclusa dalle benedizioni riservate ai Giudei. La loro guarigione operata da Yeshua li permise di essere riammessi, e rappresenta la salvezza ricevuta per grazia, tuttavia, Yeshua li ordinò di “presentarsi ai kohanim”, ciò significa che la loro salvezza ha uno scopo: farli ritornare all’osservanza della Torah. Per questo motivo, questi dieci uomini che saranno entrati nell’Era Messianica perché salvati tramite Yeshua, dovranno adempiere lo scopo della loro salvezza, e ritornare all’osservanza del Patto, perciò prenderanno per la veste un Giudeo affinché li sia di guida (Zekharyah 8:23).
Alcuni esempi simili li troviamo nelle parabole, come quella delle dieci vergini (Matteo 25:1-13) e dei dieci servi (Luca 19:12-27). Sono dieci le vergini che aspettano lo sposo, e sono dieci le Tribù che aspettano la redenzione; sono dieci i servi ai quali l’uomo nobile ha incaricato di fruttare i suoi beni, e sono dieci le Tribù dei figli d’Israele che riceveranno potestà di governare nel Regno al suo ritorno. Questo concorda con la sua enigmatica dichiarazione: «Io non sono stato mandato se non alle pecore perdute della Casa di Israele» (Matteo 15:24). A proposito, questo disse quando gli è richiesto di dare ascolto alla supplica di una donna cananea, la quale, in quanto gentile, è qualificata da Yeshua nello stesso modo che generalmente i Giudei reputavano i gentili: dei cani. Come mai Yeshua ha trattato così una povera donna? Egli semplicemente era in linea con i concetti dei Giudei dell’epoca, e per quanto questo possa stupirci, Yeshua non censurò questo modo di considerare i gentili, ma egli stesso aderì! Questo stesso concetto lo troviamo nell’ultimo capitolo della Bibbia, in Apocalisse 22:15 −  “fuori i cani, ecc.”. Molte ipotesi si sono proposte cercando di spiegare cosa significa questo, chi sono i “cani” che non possono entrare nella Città. Se si leggesse la Scrittura in forma più coerente, collegando i versi con il contesto generale, magari si riuscirebbe a capirla meglio. Purtroppo, la mancanza d’imparzialità e di conoscenza della società dell’epoca, porta gli esegeti a
perdersi in speculazioni teologiche senza fine. Che la parola “gentile” (goy, in ebraico) avesse dei connotati negativi risulta evidente anche dal fatto che era come un sinonimo di peccatore, come nel seguente brano:
«E se rifiuta d’ascoltarli, dillo all’assemblea; e se rifiuta d’ascoltare anche l’assemblea, sia considerato come un gentile ed esattore». (Matteo 18:17)
E’ superfluo spiegare che in questo verso la parola corretta è assemblea, e non “chiesa” come alcune versioni riportano. La chiesa come tale non esisteva ancora, eppure, traducendo il termine in questo modo, tacitamente s’accetta il fatto che la vera ed unica chiesa era quella già esistente ai tempi di Yeshua, ovvero, la Sinagoga! Riprendendo il nostro argomento, qui il peccatore impenitente ed accanito è paragonato al gentile ed all’esattore (disprezzato in quanto servo dei gentili). In poche parole, il gentile è colui che non entrerà mai nell’assemblea d’Israele, mentre che coloro i quali sono redenti, devono essere innestati nell’ulivo domestico (e non l’ulivo domestico nella chiesa dei gentili!). A loro viene paragonata la persona materialista (Matteo 6:32), e le loro preghiere ripetitive -come il rosario, introdotto nel cristianesimo dall’ambiente pagano- come stupide ed inascoltabili (Matteo 6:7). L’occorrenza di termini spregiativi nei loro confronti da parte di Yeshua si ripete in altre circostanze, dove ancora sono chiamati cani, ed altri animali:
«Non date ciò ch’è santo ai cani e non gettate le vostre perle dinanzi ai porci, che talora non le pestino coi piedi e, rivolti contro di voi, non vi sbranino». (Matteo 7:6)
In questa esortazione non si parla letteralmente né di cani né di porci, ma di gentili in generale e di Romani in particolare, per i quali non si deve sprecare alcuna spiegazione della Torah. Questo poteva addirittura risultare controproducente, al punto di poter diventare una scusa per organizzare una repressione (così infatti agivano i Romani). C’è ancora un episodio singolare in cui ci sono di nuovo trai protagonisti certi “animali”:
E Yeshua gli domandò: «Qual’è il tuo nome?», ed egli rispose: «Il mio nome è legione, perché siamo molti»... Or quivi pel monte stava a pascolare un gran branco di porci. E gli spiriti lo pregarono dicendo: «Mandaci nei porci, perché entriamo in essi». Ed egli lo permise loro. E gli spiriti impuri, usciti, entrarono nei porci, ed il branco, ch’era di circa duemila, s’avventò giù a precipizio ed affogarono nel mare. (Marco 5:9-13)
Per commentare questo episodio, non potrei farlo meglio di Pinhas Lapide, per cui, anche questa volta, mi permetto di riportare letteralmente la sua spiegazione:La guarigione miracolosa dell’indemoniato di Gerasa − una delle pericopi più ampie della tradizione sinottica − mostra evidenti segni di ripetuti rimaneggiamenti. Essa è stata oggetto d’interpretazioni molto diverse. I più pensano che l’episodio dei porci sia stato aggiunto in un secondo tempo al racconto originario. Il fatto che in Marco (5:12) e Luca (8:26-39) si tratti di un solo indemoniato ed in Matteo (8:28-34) di due; il fatto che la città di Gerasa disti due giorni di cammino da Genetzaret, per cui lo spostamento del mare (Marco 5:1,13) sul luogo della guarigione è con ogni probabilità redazionale, sono incongruenze del racconto che danno filo da torcere all’esegeta.  Ma assolutamente incredibili sono i ‹circa duemila porci› nei quali, secondo Marco, Yeshua ha fatto entrare i demoni scacciati. Che questo numero oltrepassi di gran lunga tutte le plausibili dimensioni di un branco di porci − a parte il fatto che i porci non sono animali che vivono in branco − è incontestabile. Anche Matteo e Luca sembrano essere stati di quest’avviso, poiché riprendono quasi con le stesse parole di Marco la conclusione della pericope sulla cacciata dei demoni, ma tacciono sul numero dei porci.
Anche in questo caso, riportando il racconto al testo ebraico si potrebbe risolvere il problema:
ba’alafim significa in ebraico ‹in branco› o ‹a frotte›, perché il termine originario elef può significare sia ‹bestiame, bovini›, sia ‹mille›. Poiché in ebraico le lettere bet e kaf sono molto simili, sarebbe piuttosto difficile distinguerle in un rotolo usato di frequente e quindi usurato. Quindi, ka’alafim può essere facilmente letto come ka’alpaim, che significa ‹quasi duemila›.
Ma il nostro racconto può nascondere benissimo un significato profondo, che possiamo scoprire solo riflettendo sul significato del termine ‹porci› nell’Israele di quel tempo. Com’è noto, la carne di maiale non può essere consumata (Levitico 11:7; Deuteronomio 14:8) e l’allevamento dei maiali era severamente vietato in tutto Israele (BQ 7:7). ‹Maledetto l’uomo che alleva maiali› (M 64b e Sotah 49b) era considerato un principio basilare assolutamente incontestabile. Il ‹porco› era anche l’immagine dell’odiato impero romano. A ciò s’aggiunge il fatto che la X legione fretense, che allora assicurava in Israele la famigerata
pax romana ricorrendo brutalmente alla spada aveva come mascotte un cinghiale. Se a tutto questo s’aggiunge che i legionari Romani spesso arricchivano il loro povero rancio militare con carne di maiale rastrellata nei villaggi greci della Decapoli, è chiaro che i termini ‹porci› e ‹legione› emanavano un odioso odore politico, soprattutto presso tutti coloro che speravano nella liberazione d’Israele, come si dice così eloquentemente nel Magnificat (Luca 1:49-55), nel Benedictus (Luca 1:68-71) e nella Profezia di Hanna (Luca 2:38). Perciò, quando Yeshua ammonisce i suoi di ‹non gettare le perle davanti a i porci›, essi comprendono che non si deve sprecare la sapienza della Torah per i pagani e soprattutto per i Romani.
Qui, nella guarigione dell’indemoniato, i riferimenti allo ‹spirito immondo›, che si presenta come ‹legione›, ‹perché siamo molti›, e poi ‹scongiura con insistenza Yeshua di non cacciarlo fuori da quella regione›, ma di ‹mandarlo da quei porci›, sono altrettante evidenti allusioni all’indesiderata potenza romana. Anch’essa ‹non voleva lasciare la regione›; anch’essa aveva uno ‹spirito immondo› ed era molto numerosa; anch’essa era associata inequivocabilmente ai porci nel linguaggio comune. Perciò, è impossibile non percepire la gioia del narratore quando parla della fine di tutti quei porci, per i quali si è letteralmente pregato ‹il mare› di venire in soccorso. I Romani erano giunti in Israele proprio ‹dal mare›, contro la volontà del popolo Ebreo, per cui il loro ritorno a casa sul mare, meglio ancora a capofitto ‹giù nel mare›, corrispondeva al desiderio di tutti gli Ebrei del tempo. A tale riguardo, si può ancora ricordare che Matteo indica come luogo della guarigione Gadara, che, diversamente da Gerasa, si trovava in prossimità del mare ed era stata distrutta due volte nella guerra contro Roma ed i suoi abitanti erano stati massacrati, fatti prigionieri o crocifissi. Il nocciolo storico di questo racconto può esprimere il desiderio, assolutamente comprensibile nei sopravvissuti a quel massacro, che i ‹porci Romani› sprofondassero, come un tempo i cavalieri del Faraone, fra le onde del mare.
Anche Joachim Gnilka afferma giustamente nel suo commento: «L’origine del racconto potrebbe essere zelota, e nella scelta di quel termine si può sospettare qualcosa di più, vedervi cioè un’allusione alla situazione politica della regione»
”. (“Bibbia tradotta, Bibbia tradita”, parte terza, 1, 25).
Il fatto che il testo greco degli Evangeli fu concluso in pieno periodo di persecuzione contro i
seguaci di Yeshua da parte dei Romani è un motivo più che valido per utilizzare delle metafore che non possano essere capite da questi. Diversamente dalle Scritture Ebraiche, che raccontano la verità storica, il Nuovo Testamento è pieno d’allegorie, proprio per questo motivo. La stessa città di Roma viene chiamata "Babilonia" (città che allora si trovava in territorio dei nemici dei Romani, l’Impero dei Parti) per non compromettere né l’autore né i lettori e permettere che il testo sopravvivesse. Che i gentili siano rappresentati da animali non è inusuale, infatti, nella visione del Profeta Daniel, gli imperi mondiali sono raffigurati da diverse bestie, di cui la più terribile ed abominevole è proprio la bestia romana. Ai cristiani piace molto dare un’interpretazione simbolica alla Bibbia, quindi, non dovrebbero avere difficoltà ad ammettere che anche questo racconto sia incluso nel loro elenco di allegorie, visto che le prove contro la letteralità dello stesso sono schiaccianti. Non ci risulta che né Gerasa né Gadara fossero città prevalentemente abitate da non-Ebrei, per cui l’allevamento di porci in quella zona è altamente improbabile, com’è assurda la quantità di duemila − è invece realistico pensare che ci fossero delle legioni romane stanziate in quell’area.
Vorrei chiarire che con questo non abbiamo nessuna intenzione di offendere i cittadini di Roma, i quali sono come tutti gli esseri umani uguali davanti ad Elohim ed hanno anch’essi bisogno di misericordia divina ed hanno la stessa dignità dei Giudei e di tutti i popoli. Questa riflessione è semplicemente un’analisi storica della situazione sociale e politica di quel tempo, in cui l’Impero Romano s’era guadagnata la cattiva fama per i suoi metodi atroci di conquista e dominazione. I soldati Romani d’altronde, erano maggiormente dei mercenari di svariate origini, non necessariamente Romani nel senso stretto del termine.

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